4.
Mistero

Il padre di Annette e Fabò si chiamava Jean-Paul Gaillard ed era un poliziotto o, meglio, era uno dei più importanti funzionari di polizia della città. Da qualche mese, infatti, era stato nominato commissario capo.

Essere la famiglia di un neocommissario di polizia aveva comportato certi cambiamenti nella loro vita. Uno di questi era che non potevano dare per scontato a che ora sarebbero riusciti a cenare! Anche quella sera, infatti, Jean-Paul aveva chiamato a casa per dire che avrebbe tardato. Pareva che al commissariato fosse successo l’ennesimo gran pasticcio...

Quelle telefonate si concludevano ogni volta con la stessa frase: «Voi non aspettatemi, cominciate senza di me...». E ogni volta Valentine, Annette e Fabò sceglievano di aspettarlo.

Non era colpa del papà, se il lavoro lo costringeva a fare tardi.

— Chissà cosa sarà successo questa volta... — immaginò Fabò, con il naso schiacciato contro il vetro. Fra i palazzi di fronte intravedeva la Senna e un barcone illuminato che la percorreva lentamente.

— Ve la ricordate la storia del Pierrot? — domandò Annette sollevando gli occhi dal libro che stava sfogliando.

I tre risero, complici.

Il mese prima, al commissariato di Gaillard era arrivata la segnalazione che un uomo in costume da Pierrot era accasciato sul lungosenna. Si era poi scoperto che si trattava di uno dei più importanti avvocati della città! Nonostante le mille domande dei ragazzi, tra una polpetta e una forchettata di purè, quella volta il padre aveva mantenuto un divertito riserbo su cosa era successo veramente e perché l’avvocato era vestito in quel modo.

Di solito, davanti a un piatto fumante, si sbottonava di più, aggiungendo però: «Non dovete dirlo a nessuno, promesso, ragazzi?».

 

La sera scese sulla città e le luci del palazzo di vicolo Voltaire si accesero a una a una, creando un mosaico di tessere luminose. Dietro la finestra del terzo piano, in attesa del ritorno del padre, i due fratelli Gaillard raccontarono a Valentine quello che era successo durante il pomeriggio.

— Avete fatto bene ad aiutare quel signore che hanno messo sotto — disse la madre scolando i broccoli nel lavandino. — Ma non so se pedinarlo sia stata una buona idea.

— E perché, scusa? — domandò Fabò addentando un cracker senza grassi.

— Non si seguono le persone, così, senza un motivo. Poteva essere pericoloso! — sbottò Valentine.

— Ma dai... Quel Deloffre aveva un’aria talmente innocua... — replicò Annette.

— È inutile correre rischi... per... per una semplice curiosità.

— Parli tu — fece Fabò ridacchiando — che sei entrata di nascosto nello studio del dottor Mersault quando eri convinta che avesse ucciso sua moglie.

— Giusto! — gli fece eco Annette. — Pensa se Mersault ti avesse scoperta...

— E pensa se fosse stato davvero un assassino, magari con un coltellaccio ancora pronto nel cassetto!

— E invece le aveva solo regalato una crociera! — concluse Annette.

Ebbene sì, la passione per le investigazioni era decisamente di casa, tra i Gaillard.

Valentine glissò su quell’episodio imbarazzante e cercò di cambiare discorso. — Piuttosto... Vi è venuta qualche idea per l’Enigma del Mese? — domandò versandosi un bicchiere di succo di pompelmo.

Ottenne immediatamente l’attenzione dei figli. Fabò smise di guardare fuori dalla finestra e Annette posò il libro.

— E a te?

— L’ho domandato prima io, furbetta.

— Io ho una mezza idea — disse Fabò, ma non gli credette nessuno.

I tre si radunarono sul divano, attorno ad Annette, e presero Il carillon della morte, l’ultimo libro di King Ellerton, sfogliandolo rapidamente. L’Enigma del Mese era una rubrica che si trovava nelle ultime pagine, nella quale il grande detective proponeva ai suoi lettori un intricatissimo mistero da risolvere. Chi pensava di avere raggiunto la soluzione doveva inviarla alla casa editrice e, ogni mese, il primo che azzeccava vinceva un abbonamento annuale e una lente d’ingrandimento dorata con le iniziali di King Ellerton.

— Io credo... che sia stato il benzinaio... — buttò là Fabò, mentre sua sorella e sua madre si rinfrescavano la memoria rileggendo la traccia dell’enigma.

Il caso di quel mese riguardava un misterioso furto di gioielli con omicidio in un antico maniero del Sussex. La faccenda era davvero complicata.

— Ma non c’è nemmeno, il benzinaio! — sbottò la sorella. — Sono tutte carrozze trainate da cavalli!

— E allora? È insospettabile, dico io!

Annette, Fabò e Valentine si scambiarono idee, esaminarono a lungo diversi dettagli della storia, snocciolarono un po’ di ipotesi, ma senza cavare un ragno dal buco.

— La verità è che non riesco a concentrarmi... — confessò Annette quando era già trascorsa una mezz’ora buona. — Continuo a pensare a quello che è successo oggi.

— Questa storia ti sta ossessionando, Annette — sbuffò la madre.

— Mi chiedo chi possa voler uccidere un poveraccio come Deloffre — spiegò la ragazza tormentandosi una ciocca di capelli. — E perché!

In quel momento, dalla porta della cucina fece capolino il commissario Gaillard: un uomo alto, dalle spalle larghe, con una bella testa di capelli rossicci e un importante paio di baffi. Come sempre, era entrato in casa senza che nessuno lo sentisse.

— Papà!

— Che spavento!

— Oh-oh, la mia famiglia!

L’uomo salutò affettuosamente moglie e figli e si abbandonò su una seggiola sospirando: — Non dovevate aspettarmi.

— Scherzi? È pronto fra un momento.

— E non dovevate fare i broccoletti — sussurrò divertito a beneficio dei ragazzi.

Annette e Fabò risero piano.

— Qualcuno ha detto qualcosa? — domandò Valentine dalla cucina.

— No, no, cara. Niente! — rispose il commissario facendo di nuovo sorridere i ragazzi. Lanciò un’occhiata ai libri sparpagliati sul divano e poi disse: — Sono io che sto impazzendo o qualcuno di voi ha pronunciando il nome “Deloffre”? — chiese passandosi una mano tra i capelli.

Annette e Fabò si guardarono con occhi pieni di sorpresa. Come mai il padre conosceva quel nome?

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Valentine smise per un attimo di trafficare in cucina. Sapeva perfettamente che il marito non era per niente entusiasta della passione dei suoi figli per i misteri, e l’aveva rimproverata più volte per come lei li incoraggiava. Pensò quindi di non informarlo del piccolo pedinamento che Annette e Fabò avevano fatto nel pomeriggio. Decise di giocare d’astuzia.

— No, si parlava di Delgrosses, un compagno di scuola di Annette — intervenne fulminea nel discorso. — Ma tu devi essere a pezzi, povero caro, hai una faccia...

 

Strizzò l’occhio ai figli in modo quasi impercettibile. Poi servì in tavola.

In effetti, il commissario Gaillard sembrava davvero stanchissimo e aveva reclinato il capo all’indietro, abbandonandosi sullo schienale della sedia. Doveva aver passato una giornata da incubo.

— Ah, meglio così... — disse a occhi chiusi. — Quel nome l’ho sentito così tante volte oggi in ufficio che continua a ronzarmi nelle orecchie! — sospirò.

— Quel nome? — domandò Annette ignorando volutamente lo sguardo d’avvertimento della madre.

— Sì. Deloffre. Jacques Deloffre — rispose il padre addentando la coscia di pollo bollita che sua moglie gli aveva appena rifilato. — Un tipo losco che abita non lontano da qui, in rue Charlot. È sospettato di avere ucciso i suoi padroni di casa.

A Fabò andò di traverso un broccoletto e cominciò a tossire convulsamente. A Valentine, invece, quasi cadde la forchetta per terra.

— CHE COSA?! — esclamò Annette strabuzzando gli occhi.

— Beh? E con questo? — fece il commissario Gaillard, stupito da quella reazione. — La città è piena di storie simili — aggiunse spolpando la sua coscetta.

— Sì, ma... voglio dire... Uccidere due persone non è proprio una cosa da niente...

— E come le ha uccise? — chiese Fabò.

Il padre terminò di mangiare senza rispondere. Annette allora gli riempì di nuovo il piatto di pollo e broccoletti fumanti, nella speranza di metterlo di buon umore. Il problema era che la deriva salutista della cucina di famiglia non serviva bene allo scopo. Se soltanto a cena ci fosse stato un ossobuco con patate oppure una zuppa di asparagi e gamberetti o, ancora meglio, una tartiflette alla savoiarda con il formaggio, suo padre avrebbe raccontato per filo e per segno ogni dettaglio dell’indagine.

— Non sappiamo ancora se è stato lui, Fabò... — borbottò il commissario Gaillard. — Ma se è colpevole... toccò la bottiglia dell’acqua con la punta del coltello — li ha uccisi con una bottiglia di sidro avvelenato.

— Jean-Paul... per piacere...

— Valentine, i ragazzi sono grandi ormai...

La mamma di Annette e Fabò non protestò più. E poi anche lei era curiosa di sapere come erano andate le cose.

— Deloffre era in ritardo con il pagamento dell’affitto. Doveva ai signori Bloch un paio di mensilità. Stiamo ancora controllando... —. Anche il secondo piatto di pollo e broccoletti terminò. Il padre controllò l’ora e sollevò un sopracciglio, preoccupato.

— E la bottiglia avvelenata? — chiese Annette.

— Acido prussico, ci ha detto il dottore a cui l’abbiamo fatta analizzare. Un vecchio veleno che non si vedeva a Parigi da un bel po’ di anni. È leggermente acidulo, per cui l’ha fatto sciogliere nel sidro, una bevanda altrettanto acida che, fra l’altro, si deve far ossigenare, prima di bere.

— Cioè? — domandò Fabò.

— La stappi e, tenendola bene alta sopra il bicchiere, versi il sidro poco per volta, bevendolo subito. Ed è quello che hanno fatto i signori Bloch. Deloffre deve averli invitati a casa sua per un aperitivo, ha offerto loro il sidro avvelenato con l’acido prussico, e i due poveretti sono rimasti stecchiti.

— Mamma mia! — esclamò Valentine.

— Sembra che la moglie fosse una vera vipera. Gestiva lei gli affari della famiglia e secondo i vicini era una gran taccagna. Pensa che un testimone ci ha detto che... —. Il commissario si rese conto che nulla di ciò che il testimone aveva detto della signora Bloch poteva essere ripetuto davanti alla sua famiglia. — Beh, insomma, che era una vera vipera — si limitò quindi a ripetere.

Valentine e Jean-Paul si lanciarono in un dialogo serrato sui dettagli dell’indagine. Un vero classico di casa Gaillard.

— Non è una ragione sufficiente per ucciderla.

— Non è una ragione sufficiente neppure per uccidere il marito.

— Ma, scusa... se le cose sono andate così... perché non avete ancora arrestato Deloffre?

— Semplice, cara... Perché ha un alibi.

— Alibi?

— Proprio così. I signori Bloch sono andati a casa sua intorno alle sei dell’altro ieri. Secondo il medico legale, hanno ingerito il veleno una ventina di minuti dopo. E il signor Deloffre è rincasato non prima delle sette di sera.

— Quindi non era con loro quando... hanno ingerito il veleno?

— Esatto. Ma stiamo indagando proprio per trovare un difetto nel suo alibi, e farlo confessare.

— È solido? — domandò Annette in tono professionale. — Voglio dire, è uno di quegli alibi inattaccabili?

Il padre ridacchiò, osservando la precisione della domanda della figlia. Ma non aveva nessuna voglia di continuare quel discorso. — Che ne dite se smetto di lavorare un po’, almeno a casa, e vado a vedermi la partita?

Annette soffocò uno sbuffo di delusione, mentre Fabò accompagnò il padre in salotto. Si sedettero sul divano, accesero il televisore e si sintonizzarono sulla folla urlante che seguiva il Paris Saint-Germain allo stadio; era una partita della Champions League.

 

Annette e Valentine sparecchiarono la tavola, poi si diressero nelle rispettive camere, alternandosi in bagno prima di mettersi sotto le coperte.

Fabò raggiunse la sorella un’ora e mezzo dopo, senza passare dal bagno. Si levò i vestiti facendone una palla che gettò per terra e si infilò sotto le coperte in assoluto silenzio.

— Allora? — gli domandò Annette. — Gliel’hai chiesto?

— Chiesto cosa?

— Fabò, per piacere...

— E tu me l’hai chiesto?

— Chiesto cosa?

— Vedi? Fai esattamente come me!

Annette sbuffò, rigirandosi sotto le lenzuola. Poi, dopo un periodo che parve interminabile, domandò: — Avete vinto o perso?

— Vinto.

Fabò, tutto soddisfatto, accese la lucina sul comodino, facendo girare di nuovo la sorella verso di lui.

— Secondo me non è granché, come alibi. Il signor Deloffre dice di essere andato a fare acquisti al mercato rionale e di aver passato il pomeriggio là. Ma quando è tornato a casa non aveva con sé nemmeno una sporta della spesa. Il papà ha mandato l’investigatore Pasquiat al mercato per verificare la cosa, ma...

— ...Ma quel pasticcione di Pasquiat non ha ancora trovato niente di utile.

— Esatto.

— Conoscendolo, avrà passato l’intera giornata al banco dei formaggi.

— Comunque, oggi... è stato grande, non credi? domandò Fabò spegnendo la luce. — Abbiamo pedinato un vero sospettato d’omicidio!

— In realtà abbiamo pedinato un tizio sospettato di omicidio che per un pelo non diventava la vittima di un altro omicidio. Non è strano?

— Stranissimo.

— E comunque io non ci credo.

— A cosa?

— A Deloffre che architetta ed esegue un delitto con tanta precisione. A me è sembrato solo un brontolone un po’ fuori di testa, che si sente perseguitato da tutti. Uno così, secondo me, non è capace di avvelenare una bottiglia di sidro con l’acido prussico e uccidere il suo padrone di casa...

— E la moglie...

— E la moglie. In casa sua, per giunta.

— Domani dobbiamo parlarne con il figlio della signora Barduchon.

— È una buona idea.

Annette e Fabò continuarono a rigirarsi nelle lenzuola e a confabulare, fino a quando uno dei due smise di rispondere alle domande e alle supposizioni dell’altro.

E a quel punto finalmente si addormentarono.

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